Alberi secolari silani

Alberi secolari  silani
Una varco sbarrato, forse

sabato 21 gennaio 2012



Donna & Magia ebraica
Pensieri preliminari
su una monografia "on my desk"



Narra una tradizione ebraica medievale che l’anima umana debba percorrere stadi successivi nella sua storia d’incarnazione e morte, caratterizzati dalla mancanza di memoria, provocata a sua volta dall’impatto nella situazione successiva in cui viene a trovarsi. Quando l’anima era nella mente di Dio, la situazione di quiete e tranquillità le avrebbe indotto a rifiutare la procreazione ed il successivo innesto corporeo, materiale nel seno di una donna. Nonostante i sui pianti e le sue suppliche, l’angelo addetto, eseguendo un comando divino, dà all’anima uno schiaffo che le fa dimenticare il periodo di quiete beata. Anche nel seno della donna, l’anima è formata in un ambiente che lentamente le diviene familiare, a lei proprio, che l’induce a protestare quando le viene comunicato che dovrà lasciare la tranquillità della vita prenatale. Lo schiaffo dell’oblio origina la nascita alla vita umana, dove si adatta e si crea uno spazio di quiete e d’egoismo, d’amor sui. Alla fine dei giorni terreni, l’anima non ha voglia di lasciare questo suo mondo ameno, così induce l’angelo a darle ancor uno schiaffo per dimenticare il regno dell’umano, ritornando così nel divino.

L’immagine di questa creazione di eventi successivi, tramite vuoti di memoria, si adatta perfettamente alla nostra mentalità odierna che, in cerca di nuove sfide, oblia sistematicamente ciò che è ed era il nostro passato. Forse è proprio questo vuoto di memoria che ci fa essere ottimisti, stendendo un velo pietoso d’ignoranza sulla nostra esperienza passata.

L’idea dell’esistenza di una memoria culturale, come la chiama non senza enfasi l’egittologo e storico della cultura Jan Assmann, ci fa dimenticare che questa deve essere attualizzata per inferire nella nostra società, altrimenti saremo condannati a rivivere il passato. Il progresso mentale non può essere attualizzato se lo studio del passato è previamente selettivo, portando alla luce solo la corrente principale – “mainstream” lo chiamano gli anglosassoni – e tralasciando e depauperando le esistenze laterali che hanno contribuito alla crescita e alla formazione del pensiero generale. Questa conoscenza è certamente scomoda, perché mette in discussione e a repentaglio le certezze e le sicurezze della cultura dominante, apre però nuovi spiragli nell’apprendimento di metodi acquisitivi di nuove conoscenze. Poiché il futuro può esistere solo nell’appropriazione dialettica del passato, anche se non cosciente attualmente.

Questo vale a maggior ragione se si parla di magia e donna nell’ebraismo antico. Parlar dell’antichità non è di moda, rifletter su di essa è pero importante, se si pensa che non siamo lontani dalle paure dei nostri antenati, non siamo diventati adulti almeno nella misura in cui il mondo moderno pensa di esserlo. Il germe del passato vive nel presente, anzi persiste se non si trovano modi di riesaminarlo nelle sue radici.

Trattare di magia oggi significa, dunque, affrontare un tema anacronistico e desueto, le cui credenze, forze “occulte”, convinzioni e “scoperte” sembrano ormai esser state superate dalle nuove scienze e tecnologie le quali non lasciano più spazio al potere immaginativo. È singolare costatare in che misura la società del ventunesimo secolo abbia felicemente inibito l’uomo dall’esame della logica del quotidiano, dove la magia, ancora oggi, regna sovrana, anche se camuffata da costumi comunemente accettati, “hobbies” come l’astrologia, paure mal celate e soprattutto angosce confessate solo agli intimi o allo psichiatra. Questo è solo un aspetto della fede magica, quello della psicologia individuale impregnata da secoli e forse millenni dal potere “magico”, che ci assilla specialmente, ma non esclusivamente, se proveniamo da una società rurale. Esistono però altre implicazioni del mondo che noi chiamiamo magico, le quali vengono affrontate solo in poche pubblicazioni specializzate. Esse sono poco conosciute, seppure ne siano parte essenziale: la dimensione politica della magia nei suoi aspetti di mantenere il potere sulla base di credenze, oppure sfruttare le stesse per soggiogare gli altri; l’aspetto sociologico in cui si evidenzia la connessione e la divisione tra i gruppi che formano la società; l’ascesa delle scienze e delle tecniche a cui la magia classica ha contribuito decisamente, e, certamente non l’ultimo, il contributo che ha dato e da tuttora la magia alle convinzioni e ai riti religiosi, nella sua funzione cultica, sacrale e numinosa.

Il tema “donna” non ha bisogno d’esser presentato, data l’attualità e la presenza nei media e nella letteratura. Parlare della donna ebrea nell’ebraismo antico non è una novità assoluta, la cui presenza nella letteratura recente è forse da ricondurre al tentativo apologetico, almeno da parte della tradizione cristiana, a enfatizzare il ruolo positivo della donna ebrea neotestamentaria come simbolo emblematico dello stato della donna secondo il magistero cristiano. Di magia e donna non se ne parla. Forse perché coniugare i due temi ha uno svantaggio di metodo che potrebbe già viziare il risultato. Non s’incorre nel pericolo di apologia, se si tenta disperatamente di “salvare” culture passate cercando attenuanti per la loro caccia alle streghe? Oppure, non si ripete la stessa critica comunista-marxiana della repressione in una società dominante totalmente preda del maschile? La questione si complica ulteriormente se si delimita il campo all’ebraismo, un tema decisamente delicato, vista l’accusa antiebraica e antisemita di praticare le arti magiche per soggiogare il cristiano, di cui pubblicazioni recenti hanno attizzato quel fuoco pensato già spento.

L’esame della connessione dei tre temi, magia, donna, ed ebraismo ci dà proprio la piattaforma ideale di come accostare il soggetto, perché ci si accorgerà ben presto come nascono i cliché della società odierna e dove nascono convinzioni che ci sorprendono. Spostando l’angolo sull’antichità, d’altro canto, avremmo raggiunto quello che lo scrittore romano Cornelio Tacito chiamava la distanza dello storico (cioè “sine ita et studio”) che ci permette almeno teoreticamente lo studio senza affetto.

Il libro che sto scrivendo si propone un’indagine del magico fuori dell’usuale, esponendo alcune prospettive interpretative sull’uso e proibizione della magia nell’antichità ebraico-rabbinica (dal primo al decimo secolo dell’era corrente) come atto politico per mantenere il controllo del presente e l’autorità sul testo sacro e la tradizione. La donna acquista nel mondo rabbinico una funzione unica, anche perché contrariamente alla sua vicina romana o poi anche cristiana, aveva un educazione più elevata e non era raro che sapesse legger e scrivere. In tutti i casi doveva padroneggiare le leggi della kasherut (preparazione dei cibi secondo norme rigorosamente stabilite), della purità domestica e personale, quest’ultime legata alle mestruazioni, al rapporto sessuale e al parto, e senza dubbio anche le norme per le feste, le ricorrenze, la cura dei vivi e il ricordo dei morti. Data la funzione prettamente educativa e normativa del movimento rabbinico e perciò della concentrazione maschile sull’insegnamento, non è certo raro che la funzione amministrativa sia stata nelle mani delle donne. Questo significa che una buona parte del potere, non solo “domestico”, ma anche sociale, stava sotto il loro dominio. Questo potere venne consolidato anche, ed ironicamente, dall’ignoranza maschile della natura del femminile e di ciò che questo implica, come si cercherà di dimostrare.
 

venerdì 20 gennaio 2012

Sui ipsius (1): elogium magiae


Qualche volta bisognerebbe credere alla magia, perché da spiegazioni (irrazionali) che però acquietano l'animo umano, ci danno la possibilità di spiegar qualche cosa senza che ci si dia il senso di colpa. Infatti, quello che più ci dà fastidio, psicologicamente,  è attribuire consciamente la responsabilità del nostro operato  al nostro io responsabile. Ci rifugiamo, molto facilmente, nell’atrio del nostro io, che chiamerei exculpatio,  la cellula che ci permette di attribuire  la colpa  alla genetica o alla società; così ci sentiamo sicuri nella insicurezza generale. C’è un quantino di verità, ma solo all’ennesima potenza.

La magia ci aiuta, ci dà  certezze incredibili, il male non solo non viene da noi, ma è di  causa oscura,  operato dall’impero del male, multinazionale, una  congiura contro di noi, come la crisi economica che è certamente causata dall’ingordigia della Germania,  delle banche, delle holdings etc.  Mai vedere se siamo noi, se è la nostra stanchezza di esser uomini politici che si conquistano il tutto con la propria forza .

Ho detto che credo appassionatamente alla magia  proprio perché mi dà spiegazioni di cui non ho bisogno, ma che appagano la mia vita, il mio io. Afflitti da malattie ci piace dare la colpa ai geni,  preciso: non a quelli romantici, ma a quelli  formati da una sequenza di acidi nucleici, il famigerato DNA.  Io non ho alcuna responsabilità oggettiva, tutto dipende da un disegnatore oscuro che ha formato ed influenzato negativamente le mie sequenze. Io non devo, non posso far altro che maledirlo, esecrarlo , oppure passivamente accettarlo (non si parla di disegno divino?).

La magia delle attribuzioni tenta di lasciar la propria responsabilità fuori gioco. E forse non è del tutto errato, ci preserva da crisi depressive tremende. Meglio creder al fascino e alla maga, vicina di casa.

lunedì 16 gennaio 2012

Momenti estetici (1)

Il re e la corte
E le larve giunsero a corte
E chiesero del re,
ch'era privo di vita
Non ancora tra le zolle
Nude della terra.
Chino era il suo viso
Sul petto  d’istrione
Quel petto irsuto, carogna
Sgomento della corte, supina
Terrore del popolo, bugiardo
Gioia della plebe, canaglia
Lo acclamarono re
Nel loro furore, d’astio antico.
La morte rese duro
Quel cuore, come pietra
e le larve risero
perché non era sovrano 
nemmeno il suo cuore
era solo la morte
[autore conosciuto al bloghista] 

domenica 15 gennaio 2012

La morale  degli altri

La parola "morale" dovrebbe esser sempre qualificata dal sistema filosofico e/o religioso a cui va riferita o si autoriferisce. L'uso fattone nella vita pubblica è invece quasi sempre diretto all'altro, all'altra ai quali  si contesta qualcosa, sui quali ci si lamenta perché, per l'appunto non avrebbero  morale.
   E' come se fosse un aggettivo attributivo e predicativo dell'azione che fa l'altro, senza alcuna attinenza con se stessi, se non come persona lesa dagli altri. Nella bella Italia la morale viene invocata quando tutto va alla malora, all'orlo dell'abbisso. È allora che si alzano i Seneca che indossano la toga di saggi del mondo, i Socrate che, pur non sapendo cosa sia la cicuta, si sentono condannati a morte, anche se nessuno li ha mai presi in considerazione. Sono loro che dicono di morire per la libertà, di chi non si sa.
   E' un dato di fatto che i moralisti si qualifichino come tali da soli, autocommiserazione e autoqualificazione nello stesso tempo. E risaputo che si assurgano a giudici ed avvocati e poi condannino gli altri senz'appello. Mai se stessi. Usano le grandi testate per combattere il malcostume, la piazza per attaccar la mancanza di moralità del popolo, della massa. Mai un accenno a se stessi, mai una lamentela sul proprio comportamento. Non li ho mai visti in atteggiamento umile o almeno teatralmente contriti per darsi la colpa, per chieder perdono del male arrecato, della corruzione che hanno favorito e del male economico e sociale che hanno causato. Sono i veri traditori della società, quelli che sempre danno colpa agli altri. 



Question

“It is not the answer that enlightens, but the question” (Eugène  Ionesco):